COP28: un approfondimento
Intervista a Giacomo Vivoli che si occupa di diritto dell'ambiente presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell'Università degli Studi di Firenze
Oggi, pubblichiamo l'intervista a Giacomo Vivoli, che si occupa di diritto dell'ambiente presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell'Università degli Studi di Firenze, con la quale ARPAT ha definito un accordo di collaborazione che consente di aprire spazi di approfondimento giuridico.
Qual è il primo bilancio della Cop 28?
I lavori della COP 28, che si sono tenuti a Dubai e si sono conclusi con una dichiarazione finale che rappresenta una sorta di primo bilancio globale rispetto agli impegni presi in passato. Questo bilancio era una tappa già programmata da tempo, in quanto l’art. 14 dell’Accordo di Parigi fissava proprio nel 2023 il momento idoneo per eseguire una verifica sui progressi compiuti rispetto agli scopi che si intendono realizzare, vale a dire, quale obiettivo desiderabile, quello di mantenere entro 1,5° C l’aumento della temperatura media mondiale.
Il documento finale è lungo, complesso e ricco di espressioni ampie per cui si presta inevitabilmente a diverse interpretazioni; tuttavia, a mio parere, il risultato raggiunto non era scontato.
Se dovessi scegliere un'immagine, direi che il documento finale della COP 28 è un progetto di un ponte, che da un lato poggia su quanto è già stato stabilito in passato ma che non definisce ancora con sufficiente precisione tutti i tempi e i lavori che dovranno essere realizzati per raggiungere l’altra sponda, ossia emissioni zero (o magari negative). Rappresenta quindi una tappa fondamentale per iniziare a programmare il futuro ma le affermazioni in esso contenute sono da considerarsi condizioni necessarie ma non sufficienti per raggiungere davvero gli obiettivi che si intendono realizzare.
Spetta ai singoli Stati adeguare le loro politiche ambientali e portare avanti le azioni sul clima?
È compito dei singoli Stati dare contenuto agli impegni presi, mantenendo, però, una certa flessibilità di manovra sul come raggiungerli. Ma questo spazio di autonomia, va ricordato, è un elemento che caratterizza tutta l’esperienza iniziata con l’Accordo di Parigi. Il principio è che sono gli Stati a stabilire liberamente le azioni climatiche da porre in essere, ossia le modalità attraverso le quali intendono ridurre le emissioni che provocano il riscaldamento globale.
Infatti almeno ogni 5 anni, ciascun Stato deve comunicare i propri obiettivi di riduzione, denominati NDC (Nationally Determined Contributions), che vengono inseriti in un registro pubblico liberamente accessibile.
L’Italia non comunica direttamente i propri obiettivi di riduzione perché è l’Unione Europea (UE) ad essere “Parte” dell’Accordo di Parigi; è quindi l’UE che trasmette i propri obiettivi di riduzione distribuendo gli impegni tra i singoli Stati membri dell'Unione.
Un momento in cui si potrà testare la reale portata dell’accordo raggiunto nella COP 28 sarà il 2025 quando, in occasione della COP 30, già programmata in Brasile, gli Stati dovranno comunicare le nuove misure di azione climatica che, a quel punto, dovranno essere coerenti con gli impegni assunti durante la COP 28.
Perché è così difficile raggiungere accordi internazionali sul clima?
Ogni Stato è sovrano, non esiste un modo per obbligare uno Stato a concludere un accordo. Gli Stati si possono convincere ma non si possono costringere a giungere ad alcun accordo.
Il dialogo e la diplomazia sono quindi le uniche vie possibili.
Inoltre, per venire alla COP28, perchè questi non sono “solo” sul clima. Per uno Stato ridurre le proprie emissioni di gas serra vuol dire incidere su tutti i settori economici pubblici e privati, imponendo comunque degli oneri, perchè disinquinare costa e non tutti gli Stati sono nelle condizioni di darsi le stesse regole e prendersi in carico gli stessi vincoli.
Occorre, infatti, considerare le profonde differenze, anche in termini di benessere materiale, esistenti tra gli Stati, in certe aree del mondo dove molti cittadini non sono in grado nemmeno di soddisfare i loro bisogni primari. La domanda ecologica, ossia la richiesta ai pubblici poteri di occuparsi della tutela dell’ambiente, è più forte (e quindi politicamente più accettabile) dove i bisogni primari risultano, almeno in generale, soddisfatti. Chi vive in alcune zone dell’Africa subsahariana, della Cina o dell’India ha problemi più contingenti e, in qualche modo, al tavolo di questi accordi ci sono anche loro.
Si giunge poi all'elemento finale della votazione: non si vota a maggioranza ma tutti gli Stati devono essere d'accordo o almeno, per essere più precisi, non opporsi alla decisione finale. Non c'è infatti una vera e propria votazione finale ma viene chiesto se nessuno Stato si oppone.
Se a questo punto si considerano congiuntamente tutti gli elementi sintetizzati, si può comprendere le difficoltà nel concludere accordi sul clima: ogni Stato ha esigenze diverse, le azioni climatiche introducono costi trasversali in tutto il sistema economico e tutti devono concordare sul testo finale.
Si poteva raggiungere un risultato migliore dalla COP 28?
Astrattamente sì. Non esistono limiti teorici ad assumersi impegni ancora più avanzati, come fortemente richiesto, per esempio, da Anne Rasmussen, capo delegazione dell’AOSIS (Alliance of Small Island States), l’Alleanza che rappresenta 39 piccoli stati insulari per i quali, ovviamente, l’innalzamento dei mari è un problema drammaticamente avvertito. Dall’altre parte, c’erano in gioco altri interessi tra i quali, per citare un altro esempio, quelli portati avanti dagli Stati che ancora vedono il petrolio quale fonte principale del loro sistema economico. Si ritorna alla diversità di interessi e alla necessità di un accordo unanime.
Qual è il risultato più negativo della COP 28?
Sicuramente il fatto che non sia stato affermato in modo chiaro che la stagione dei combustibili fossili sia finita; lo “scontro” su questo aspetto si è consumato sul piano strettamente terminologico.
Nella formulazione finale del testo si concorda nel fatto di dover abbandonare i combustibili fossili affermando una “transition away from fossil fuels in energy sistems” ma le voci più ecologiste premevano per l’utilizzo di una espressione più netta ossia di “phasing-out”.
Il contrasto tra le due versioni si spiega per i differenti significati desumibili tra i due termini in quanto mentre transition away evoca un abbandono graduale dei combustibili fossili, phasing-out avrebbe assunto un tono più perentorio e deciso, prospettando cioè una loro rapida eliminazione.
Credo che sia emblematica l’affermazione di Simon Stiell, il segretario esecutivo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, quando, nella sua relazione finale, ha affermato che “we didn’t turn the page on the fossil fuel era in Dubai, this outcome is the beginning of the end”: non si può dire che con la COP 28 si sia davvero voltato pagina sui combustibili fossili ma, piuttosto, che è stato sancito l’inizio della loro fine.
Quali sono i punti e gli impegni più chiari che emergono dal documento finale?
In primo luogo, l’affermazione che le emissioni di gas serra dovute all’attività umana hanno contribuito in modo inequivocabile a causare l’aumento medio della temperatura mondiale di 1,1 ° C.
Inoltre, dopo aver riconosciuto che limitare il riscaldamento globale a 1,5°C richiede necessariamente una diminuzione rapida e stabile delle emissioni serra, si traccia un percorso per arrivare a emissioni nulle entro il 2050, fissando due obiettivi intermedi: ridurle del 43% entro il 2030 e del 60% entro il 2035 (rispetto ai dati del 2019).
Infine, altri due importanti obiettivi da raggiungere per il 2030 sono: triplicare l’energia prodotta da fonti rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica.